Il titolo del film ricorda, subito, i mondiali di calcio. Ma la storia raccontata in questo interessante film è tutt’altro che un’esperienza gioiosa e felice. Diretto da César Diaz, l’opera inizia dieci anni prima quando, Maria (Bérénice Béjo), un’attivista ribelle guatemalteca impegnata nella lotta contro la dittatura militare corrotta, è costretta a fuggire in Messico a causa di minacce di morte, lasciando suo figlio Marco in Guatemala. Dieci anni dopo, quando Marco si ricongiunge con lei, Maria si trova di fronte a un dilemma doloroso: scegliere tra i suoi doveri di madre e continuare il suo impegno nel movimento rivoluzionario.
La vicenda è autobiografica in quanto il regista è appunto nato nel 1978 durante la guerra civile in Guatemala. Sua madre, coinvolta nella lotta contro la dittatura, dovette fuggire in esilio in Messico quando il regista aveva solo tre anni e rimase in Guatemala con la nonna, che divenne la sua figura materna, mentre la madre continuava la sua lotta da lontano.
Come racconta lo stesso regista negli anni ’80 e ’90, i figli di coloro che partecipavano alla lotta venivano inviati nei cosiddetti “alveari” in Nicaragua o a Cuba. Questi rifugi erano progettati per prendersi cura dei figli degli attivisti e tenerli al sicuro. I bambini i bambini venivano anche educati ai principi rivoluzionari. Ho rischiato di essere mandato in una di queste scuole quando mia madre è partita per il Messico. Ma la nonna non lo permise e mi tenne con sé. Lui e sua madre hanno vissuto separate per molti anni.
L’opera di Diaz ha alcuni pregi e un paio di difetti. Anzitutto è ben costruita, ritmata e con un’attrice molto ben immersa nella parte. Si vede che ci crede e che parteggia per la donna rivoluzionaria in fuga. Inoltre, la ricostruzione di quel preciso periodo storico è molto ben fatta e credibile. Anche gli ambienti (sovente case in cui si deve nascondere) sono cupi, discreti e convincenti. Il difetto principale sta nella stessa vicenda autobiografica che non lascia spazio all’immaginazione. È tutto un po’ troppo didascalico, telefonato. Ed è tutto molto spiegato, descritto; anche le parrucche che indossa la protagonista per non farsi riconoscere, sono sempre un po’ troppo evidenti e la metafora ovvia. Un po’ peccato.
Ma nel complesso, comunque, un buon lavoro che fa emergere una vicenda storica che bisogna ricordare per non ripeterla.