Era senza dubbio l’opera più attesa in concorso a Locarno. Mektoub, My Love: Canto Due chiude le avventure amorose e spensierate degli amici di Sète, nel sud della Francia. Lo fa in maniera convincente, anche se non in modo clamoroso.
Dopo nove anni dal Canto Uno e sette da quell’Intermezzo mostrato solo al Festival di Cannes, Abdellatif Kechiche – Palma d’oro nel 2013 con La vita di Adele – porta finalmente a termine la sua trilogia. Un’attesa resa ancora più lunga da un travagliato percorso produttivo: le riprese si erano concluse già nel 2019, ma il film è rimasto bloccato in post-produzione per problemi finanziari e dispute legali, fino alla sua première mondiale avvenuta il 9 agosto sul Verbano.
L’opera lascia qualche interrogativo aperto e inserisce nuovi elementi, ma sempre all’interno della sua cornice d’oro: il naturalismo che Kechiche ama, e che – come ha ricordato uno dei protagonisti durante l’incontro col pubblico – rimanda tanto a Cassavetes quanto a Maurice Pialat. Un naturalismo, provato e riprovato durante le riprese (quindi nessuna improvvisazione), che mette in evidenza i pensieri e le fragilità dei vari personaggi, in un modo unico e incredibile di far cinema.
La narrazione riprende esattamente da dove si era interrotta. Ophélie è incinta di Tony, il cugino di Amin, e ha programmato con quest’ultimo di andare a Parigi per abortire, prima che torni il suo promesso sposo, un militare in missione di pace. Intanto, un importante produttore americano arriva in vacanza con la moglie, popolare attrice di soap, e si interessa alla sceneggiatura di Amin: un film di fantascienza intitolato I princìpi essenziali dell’esistenza universale. L’uomo vorrebbe produrlo, ma lo spinge a cambiare titolo – “troppo lungo per Hollywood” – e a far interpretare il ruolo principale alla moglie.
Rispetto ai primi due capitoli, questo appare un lavoro più maturo, ma anche meno spontaneo e libero. La costruzione e la sceneggiatura sono più evidenti, eppure lo sguardo di Kechiche resta inconfondibile: corpi (soprattutto femminili) filmati da vicino, personaggi seguiti nei momenti quotidiani – mangiare, cucinare, amoreggiare – per catturare frammenti di vita e soprattutto di giovinezza.
Il montaggio presenta qualche problema: stacchi troppo bruschi interrompono la fluidità narrativa tipica del regista, soprattutto nella parte centrale. Inoltre, alcune scene – come quella in spiaggia con la ragazza di Parigi accolta dal gruppo di amici – sono riprese pari pari da Intermezzo. Non sorprende, se si pensa che Kechiche aveva girato oltre mille ore di materiale, poi ridotto a circa 134 minuti.
Detto ciò, il film resta godibile, interessante, a tratti divertente (soprattutto nella prima parte) e poi più drammatico nel finale, con sequenze davvero riuscite. Memorabile quella in cui Amin, di nascosto, osserva l’arrivo di Patterson nella villa, mentre la moglie lo tradisce con Tony. In quel momento, il suo sguardo esterno inerte ma pronto a intervenire diventa lo specchio di quello degli spettatori: osserviamo, attratti e quasi compromessi in un voyeurismo “sporco”, finché lui non agisce. Il suo intervento è anche il nostro, un gesto che ci strappa alla passività e ci salva. E se allarghiamo il concetto è un po’ la funzione del cinema: quello d’autore che chiede l’intervento dello spettatore rispetto a quello che ci lascia passivi e ci fa passare un paio d’ore di puro intrattenimento.
In definitiva, Canto Due chiude il cerchio con malinconia e come ha osservato la critica francese: la vitalità esplosiva di Canto Uno lascia il posto a un’energia più fragile, consapevole che l’estate, e forse la giovinezza stessa, non possono durare per sempre.




