Vincent Van Gogh è morto. ‘Tanto meglio, era un pazzo’ dissero alcuni. ‘Abbiamo perso l’astro nascente della pittura moderna’, chiosarono altri. Solitario, nostalgico, infelice, sensibile, folle, geniale, inafferrabile, incompreso da alcuni, ammirato da altri. Trentasette anni di vita, quasi novecento dipinti e più di mille disegni. Un colpo di pistola in un campo di grano, un’agonia durata due giorni, la morte.
Un anno dopo comincia Loving Vincent, che proprio come il suo ispiratore, è unico nel suo genere: si tratta infatti del primo lungometraggio interamente dipinto su tela, realizzato rielaborando la maggior parte dei famosi dipinti dell’artista e riproponendone la tecnica, per un totale di più di 65’000 fotogrammi/quadri.
La storia è un percorso attraverso le sue opere, i suoi personaggi immortali, che attraverso la magia del cinema ci parlano, ci raccontano di lui, delle sue tribolazioni, dei suoi tratti chiari e scuri, di ciò che voleva dire essere Vincent Van Gogh. È il ritratto del celebre Armand Roulin, figlio dell’ancor più celebre Joseph Roulin, il postino, che ci guida in un viaggio per la consegna dell’ultima lettera scritta da Vincent al fratello Theo, che diviene però ben presto un’indagine sulle vere circostanze della morte di Van Gogh, forse non suicida ma assassinato. Nel cercare di far chiarezza sulla morte, Armand ne scopre le ultime settimane di vita e tutti quei personaggi che ne hanno fatto parte, da Père Tanguy al Dottor Gachet, scoprendo in Vincent un uomo complesso e una realtà più profonda di quanto si immaginava.
Un progetto monumentale, ad opera della pittrice polacca Dorota Kobiela e del regista inglese Hugh Welchman, coadiuvati da più di cento artisti da ogni parte del mondo impiegati per oltre sei anni. Un film che purtroppo, nonostante abbia alla base un’idea folle e geniale, sotto molti aspetti non riesce appieno a sostenerne il peso. Principale errore è la scelta dell’uso della rotoscopia per dar vita ai personaggi, una tecnica che priva immediatamente lo spettatore di quella immersione all’interno di quello stile post impressionista che così bene conosciamo e amiamo, donando ai personaggi ‘troppa vita’ e ‘troppo realismo’, impendendo ogni buona intenzione di volersi immergere in questo enorme quadro in movimento.
Fin troppo riconoscibili e quasi fastidiose, infatti, le fattezze di ‘estranei’ sotto le pennellate che, per quanto riguarda Van Gogh, hanno i tratti dell’attore polacco Robert Gulaczkyk, di Saoirse Ronan (Amabili resti) per la figlia di Gachet e di Jerome Flynn (Il trono di spade) per quelli del Dottor Gachet. Peccato davvero.