Scritto da Antonio Falcone
(in collaborazione con: https://lumiereeisuoifratelli.com/)

 

Ro Ferrarese, oggi. Nino (Renato Pozzetto) e Caterina (Stefania Sandrelli), sono sposati da 65 anni. Un passato lavorativo come farmacisti, una bella casa, colma di preziose opere d’arte, due figli, una femmina ed un maschio, ben sistemati, l’una editor l’altro critico d’arte, l’amore sempre vivido che continua a permeare la loro esistenza, destinato però a finire una volta che la donna morirà dopo una breve malattia, almeno così potrebbe sembrare, ma  propenso invece a perdurare in virtù del ricordo perpetrato dal marito, che non dimentica certo quelle parole scritte da Caterina il giorno delle nozze, “dandosi reciproco ed infinito amore in tutti i luoghi e in tutte le stagioni sarebbero divenuti immortali…” Eccolo allora andare con la mente indietro nel tempo, fino a visualizzare i momenti più belli ma anche quelli meno lieti della vita trascorsa insieme, dalla casuale conoscenza, ambedue studenti di Farmacia a Ferrara (ora interpretati da Isabella Ragonese e Lino Musella), al matrimonio, passando per le incomprensioni di Caterina con la famiglia di lui e la profonda amicizia, tra pesca e dissertazioni sulla poesia, di Nino col fratello di lei, Bruno (Alessandro Haber). Un rimembrare tanto palpitante e pregnante che, è il pensiero della figlia (Chiara Caselli), meriterebbe di essere messo per iscritto, magari potrà aiutare il papà a metabolizzare il distacco, conferendogli inedita dimensione. Contatta allora un ghostwriter, Amicangelo (Fabrizio Gifuni), ambizioni da romanziere smorzate dall’incedere delle necessità quotidiane, un divorzio alle spalle ed una figlia verso la quale è in debito affettivo, perché provveda al riguardo. Le incomprensioni fra il giovane scrittore e l’anziano farmacista non mancheranno, rischiando di far saltare tutto, ma volgeranno presto verso un arricchimento reciproco, in nome di un ritrovato slancio esistenziale, d’altronde, sono parole di Cesare Pavese, “l’uomo mortale non ha che questo d’immortale: il ricordo che porta e il ricordo che lascia”.

Diretto da Pupi Avati, anche autore della sceneggiatura insieme al figlio Tommaso,  Lei mi parla ancora è il libero adattamento dell’omonimo romanzo di Giuseppe Sgarbi (edito da Skira, 2014, recentemente ripubblicato da La nave di Teseo), sentito e poetico racconto di quell’amore vissuto, all’insegna di un concreto “per sempre”, dall’autore verso la moglie Caterina, all’interno di un matrimonio durato 65 anni “terrestri”, ma destinato all’immortalità, in nome di una condivisione, anche combattuta, di ogni diversità, caratteriale e di atteggiamento esistenziale in genere, all’insegna dell’ “essere l’uno per l’altra, non l’uno dell’altra”, come si legge in un capitolo del suddetto romanzo. Avati coniuga letteratura e cinema ed elegge quale musa ispiratrice a rendersi forza trainante della narrazione il “gusto del racconto per il solo piacere di raccontare”, dando vita in primo luogo ad una profonda simbiosi tra la sua persona e quella del protagonista Nino, accomunate dal lasciare sempre aperta la porta dell’illusione, del saper sognare, qualcosa forse d’impalpabile ma di cui è necessario nutrirsi, anche fosse solo un breve assaggio, per non lasciarsi sopraffare dall’ordinarietà omologante del quotidiano. Nino ha le fattezze da giovane di Lino Musella, abile nel delineare con naturalezza l’intelligenza di un uomo incline a comprendere e valorizzare la forza trainante del carattere proprio della compagna, proiettata verso un futuro dove la parità non è altro che il primo passo verso un inedito cammino, cui danno corporeità le toccanti interpretazioni di Isabella Ragonese e Stefania Sandrelli, rispettivamente “la Rina” in gioventù e ai giorni nostri, complementari nel delineare la costanza di un approccio alla vita fiducioso e libero da costrizioni.

Nino anziano è invece interpretato da un piacevolmente ritrovato Renato Pozzetto, il quale con estrema sensibilità alterna un fare sommesso e dolente ad una disincantata ironia, espressa sovente nello sguardo, propria di chi ha compreso come tale esternazione emozionale possa costituire “una  dichiarazione di dignità, un’affermazione della superiorità dell’uomo su ciò che gli capita” (Romain Gary), oltre ad assecondare quel buon senso “antico” che vede, come la campagna insegna, la morte appartenere alla vita e non viceversa. Nel suo modo d’essere, elegante e composto anche nella scontrosità, nel suo raffinato eloquio (splendidi i duetti con Haber), andandosi a rapportare con lo scrittore Amicangelo (nomen omen) dallo scontro iniziale al punto d’ incontro finale, contribuisce a creare un solido ponte fra passato e presente, entità temporali posti sullo stesso piano narrativo con i ricordi a fare da elegiaco fil rouge. Risalta così nella contrapposizione delle rispettive diversità caratteriali la differenza fra “il come eravamo”, adusi ad ancorarci a determinati valori ma comunque proiettati verso l’avvenire, e “il come siamo diventati”, non solo orfani dei suddetti valori ma anche incapaci di vedere al di là del proprio naso, pur se, citando Paul Valéry, il futuro non è più quello di una volta. Ecco che l’elemento del ricordo assume in Lei mi parla ancora toni ora poetici ora favolistici (la voce narrante), incastonati spesso all’interno di “un piccolo mondo antico”, la Bassa “zona protetta” nella sua idilliaca purezza, con un’attenta direzione degli attori, protagonisti e non (tra gli altri interpreti Serena Grandi, la madre di Nino, Nicola Nocella, Giulio, tuttofare di casa Sgarbi, Gioele Dix, agente di Amicangelo e Matteo Carlomagno, il figlio di Nino), puntando in particolar modo sul loro rilievo emozionale, così da offrire dimensione opportuna al valore dei sentimenti.

Lei mi parla ancora avrebbe forse meritato una maggiore incisività nel ritrarre qualche personaggio secondario, anche se tanto la scrittura quanto la regia, riporto la mia primaria sensazione, sembrano propense ad avvalorare spesso il non detto ed i sottintesi, affidandosi, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, alla bontà recitativa dell’intero cast. Un film che trasuda ad ogni inquadratura un senso di rara delicatezza ed empatia sia nel cogliere ogni sfumatura caratteriale dei due protagonisti alle prese con le problematiche proprie della vita di tutti i giorni, sia  nel dare risalto alle rimembranze, lasciando fluire poesia ed autenticità, ma soprattutto, egualmente al libro, capace di offrire concretezza a termini che oggi potrebbero apparire desueti, quali rispetto, fiducia, comprensione reciproca, fino alla simbiotica condivisione di un abbandono totale verso la certezza di una continuità del rapporto una volta conclusa l’esperienza terrena. Tutto ciò lungo l’iter narrativo rende alla parola “amore”, riguardo alla quale poeti e scrittori si sono da sempre prodigati nel conferirvi un’accezione il più possibile esaustiva,  un significato denso di palpitante umanità, ovvero confluente in una situazione di “normale” e quotidiana felicità, costruita giorno per giorno senza mai perdere negli anni la voglia di vivere e d’amarsi incondizionatamente, riuscendo anche a ridere l’uno dell’altro, accettando reciprocamente i propri limiti e i propri difetti, “Per sempre e nonostante tutto” (Johnny/ Al Pacino in Paura d’amare, 1991, Frankie e Johnny in originale, diretto da Garry Marshall). Assecondare il fluire temporale, accettarne, volenti o nolenti, ogni variazione sul tema, la capacità di attingere dal proprio passato per vivere meglio il presente, nel ricordo di un sentimento volto anche alla cura di se stessi per poter così aver cura di ogni cosa, possono rappresentare il segreto di un gioventù idealizzata e funzionale nell’andare incontro all’eternità.