Déluge, di Gianluca Jodice, ha debuttato ieri sera al 77º Festival di Locarno con un dramma storico ambientato nel 1792, a pochi anni di distanza dalla Rivoluzione francese. Luigi XVI (l’intenso
Guillaume Canet), sua moglie Maria Antonietta (straordinaria Mélanie Laurent), i loro due figli e la zia dei ragazzi sono condotti alla Tour du Temple poco tempo prima dell’esecuzione, che mette fine alla monarchia. Qui vengono gradatamente privati della libertà, della presenza dei loro servitori, delle dame di compagnia, poi di abiti puliti, di ambienti decorosi e, infine, della possibilità di potersi stringere attorno a loro stessi. In lontananza si sentono cannonate rivoluzionarie e spari: infuria la rivolta e il suo decorso travolgerà la famiglia reale con la forza di un diluvio, un déluge, appunto. Eppure allo spettatore è concesso di esplorare l’intimità di una famiglia, i cui componenti emergono in tutta la loro riconoscibile e straziante umanità, con le loro imperfezioni e i loro difetti, ma soprattutto terrorizzati e ripiegati l’uno sull’altra con l’accorata disperazione di chi si fa scudo contro l’inevitabile.
Il pregio di questo racconto di Jodice è dimostrare il paradosso alla base di una sentenza di morte che, de facto, priva il monarca di quell’uguaglianza tanto decantata dal canto patriottico di una
nazione che ne fa il suo vessillo.
Profetiche, in questo senso, le parole dell’intellettuale Louis Pierre Manuel (Tom Hudson) al sovrano: la gente non vede più l’uomo — voi siete il simbolo di un’ingiustizia ed è al simbolo che viene chiesto un sacrificio da immolare alla causa. Qui, però, inaspettatamente il sovrano recita la parte del dubbio storico, che si insinua tra le pieghe di questo impeto rivoluzionario di spazzare e cancellare il passato con furia catartica, e mette a nudo una scomoda verità – ancora una volta a pronunciarla è proprio la persona che incarna il privilegio e l’ineguaglianza: esiste l’égalité, dopotutto? La domanda, ovviamente, non è circoscritta alla vicenda storica di quegli anni. E la risposta resta implicita ed è drammaticamente negativa.
Manuel, uomo di lettere e profondamente riflessivo, prende piena coscienza dell’errore a cui va incontro un pensiero che non ha sfaccettature, tranchant come la lama di una ghigliottina (lo
stesso Manuel subirà la tragica sorte del sovrano, ma intanto nei panni dell’accusa ci offre uno sguardo dilaniato dal senso di colpa).
Mélanie Laurent ritrae una sovrana che fuoriesce dalla sagoma rigida di un cartone per deporre l’umanità ai piedi di due figli e un marito per cui ritrova inaspettata tenerezza. Le sue urla nelle
ultime scene sono un grido di dolore animale. La mattina dell’esecuzione, cade una pioggia irata e incessante mentre il re deposto viene condotto alla carrozza diretta al patibolo. Qui Louis XVI rivolge lo sguardo al cielo. Sì, perché la pioggia si sta abbattendo su questa ridicola processione con la forza di uno schiaffo. Qui a essere «lesa» è la maestà dell’essere umano. Il divino è infuriato contro la meschinità dell’uomo che ancora una volta gioca a fare dio come un ragazzino viziato. Non è difficile scorgere qual è l’intenzione ex machina di questo pseudodiluvio biblico.
Guillaume Canet restituisce appieno l’umanità alla persona che fu il simbolo -decapitato- del nuovo che avanzava mentre interroga il cielo sconvolto dal temporale: il condannato a morte, la
persona prossima alla fine, rivolge a dio la sua – umana – domanda e in esso cerca risposta. E forse, tra queste «lacrime», la trova
foto ©The Flood – Ascent Film