Scritto da Sarah Panatta ( in collaborazione con: https://lumiereeisuoifratelli.com/)

Ci sono modi ridicoli per stringerli. Ci sono modi convenzionali. Ci sono modi emulati. Ci sono modi. Non esistono quelli giusti o sbagliati. Solo nostri. Ognuno è legato con i suoi. Lacci.
Lo scrive la trinità giustamente imperfetta Lucchetti, Piccolo, Starnone, quest’ultimo autore del famoso romanzo omonimo, attraverso la sceneggiatura del film Lacci, fuori concorso alla 77esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.

Aldo (Luigi Lo Cascio prima e Silvio Orlando poi) e Vanda (Alba Rohrwacher prima e Laura Morante poi) sono sposati e hanno due figli, Anna e Sandro. Tra fine anni ‘70 e inizio ‘80 vivono a Napoli, o almeno condividono in parte la loro casa/nido lì collocata a causa delle origini di Aldo. Lui fa il pendolare con gli studi Rai di Roma, dove conduce un programma radiofonico dedicato alla letteratura che man mano gli fa acquisire sempre più notorietà, e trascorre il tempo rubato con moglie e bambini. Mentre il marito vive in fuga tra Roma e Napoli, lei è cristallizzata in quel nido, dedicata a casa e prole, che inevitabilmente a lei più intensamente si “lega”. Una lite banale per una supposta disattenzione di Vanda e segnalata proprio da Aldo che di solito tutto fa scorrere, apre la crepa. In quel terreno già così evidentemente arido. Aldo si è innamorato di una giovane e prosperosa collega. Lui non lo ammette ma Vanda “deve” intuirlo, come sempre con lui. Vanda lo caccia di casa e allo stesso tempo gli impone il fardello della famiglia come unica chance. In quel tempo e in tutti i tempi della loro vita labilmente “insieme”, con quel fardello lo rimprovera, ricatta, manipola, assilla, avvilisce, recupera e perde (senza soluzione di continuità). Il loro è un tempo fatto di andirivieni, di scappatella e di ritorni, di grandi amori evitati e di consuetudini scelte. E di satelliti chiusi anch’essi nelle loro orbite di egoismi autolesivi, tanto i figli quanto gli amanti.

Due metà dello stesso pianeta, complementari nelle attitudini, uno inerme anzi inerte, e asettico, l’altra isterica e teatrale. Ci sono solo loro. Aldo e Vanda, che recriminano e si rimpallano, come in uno specchio incrinato e rovesciato, difetti e colpe. Che sono le medesime. Nessuno dei due vuole davvero riconoscerle e affrontarle, vedere e sentire la natura del proprio Io e del proprio rapporto con il coniuge. Amore, sfida, pietà, desiderio, convenienza? Neppure loro sanno, perché non oseranno mai chiederselo, buttarselo davvero in faccia e quindi alla spalle, per ritrovarsi, finalmente dall’altra parte dei quello specchio. Aldo e Vanda preferiscono il tira e molla e nel frattempo alienare e allenare due figli, nel futuro due insoddisfatti repressi e compulsivi Giovanna Mezzogiorno e Adriano Giannini, al gioco della famiglia disfunzionale.

Come dice il suo doppio di carta, nel romanzo di Starnone, Aldo non ha mai sentito la vera esigenza di conoscere i propri figli ma ancora prima è evidente che non ha esigenza di andare a fondo anche in/con se stesso. Non poter/voler sapere chi si è. Non per un assoggettamento allo status quo borghese ereditato o alle aspettative e pianificazioni genitoriali (v. Scene da un matrimonio di Bergman). Bensì per una mancanza di coraggio verso se stessi. Una malattia che affligge tutti i personaggi di Lacci, un’abulia esistenziale, una rassegnazione consapevole alla bidimensionalità dei Sé e all’unilateralità dei rapporti. Ogni uomo è una città stato autarchica, sul piano emotivo. Un’isola, con sporadici collegamenti esterni per approvvigionamenti necessari, sul piano della socialità familiare. Salmoni che risalgono la corrente, loro malgrado, inetti anche, anzi soprattutto nel farsi del bene e quindi infonderlo a chi resta loro accanto, afflitto dallo stesso inetto nichilismo. Ognuno agisce seguendo la propria egocentrata ragione e obiettivo, se tale si possa definire. Ognuno è un irrisolto enigma, una scatola le cui serrature resteranno celate.

Tutto questo lo spettatore, l’interlocutore di Wanda e Aldo, lo intuisce tra un flash back e l’altro, dagli sguardi di traverso e dalle parole spezzate. Dalle frasi interrotte e dai gesti non concessi. Insomma può solo enumerare i cocci, vedere mentre deflagrano pur restando composti, i lembi combaciano ma i corpi sono rotti. Un colpo su colpo montato con garbo e ritmo, recitato con energia e rabbia. Ma tessuto dal regista come dagli sceneggiatori, tra i quali è presente, senza sangue. Lo sfogo è spesso afono, la verità non detta, il fatto non visto. La negazione, in primis a se stessi, è il meccanismo decadente e autodistruttivo, puramente umano, che interessa tanto a Starnone quanto a Lucchetti. La distruzione è il meccanismo creativo. Nessuno ha l’ardire di realizzarsi solo l’inerzia di andare avanti, persino legarsi.

Al di là di maschilismi e qualche pennellata naif, ciò che spiazza perché tanto ovvio, normale, è l’acuto inutile tenace dolore delle persone inabili alla vita stessa e quindi ai rapporti. Quasi un sottile grido, un invito alla ribellione dalla comoda passività dei nostri genitori, nostra, dei nostri anni. Dei nostri lacci.