La Cache, l’unico film svizzero in competizione alla Berlinale, è dedicato a Michel Blanc. Il noto attore francese deceduto lo scorso 3 ottobre. Un gesto significativo perché la sua ultima scena – ci scuseranno i lettori ma è indispensabile accennarne – lo vede protagonista sullo schermo, di schiena che si allontana. Sembra quasi un saluto annunciato, un addio tranquillo ma definitivo. Sia dal cinema, sia dalla vita.
Un accenno doloroso a cui fa riferimento il film in modo extradiegetico – del resto il cinema non è solo quanto succede all’interno dell’immagine, ma anche quanto capita fuori dalla stessa e addirittura all’esterno della storia raccontata -, tuttavia l’opera del vodese Lionel Baier usa tutt’altro tono e cioè lo humor per parlare di fatti anche drammatici che capitarono nel Sessantotto a Parigi. E lo fa anche con alcuni tocchi cinefili e raffinati.
La pellicola si ispira all’omonimo romanzo dello scrittore francese Christophe Boltanski e ritrae la vita di un ragazzino parigino di nove anni che vive nella casa dei nonni durante le rivolte studentesche di quel periodo (al contrario del libro che invece descrive la vita della famiglia lungo diversi anni). Il protagonista è circondato anche dai genitori, dagli zii, dalla bisnonna, accampati nel loro “misterioso nascondiglio”.
Il sapore è quello di quel periodo, a iniziare dalla voce fuori campo che ricorda quella di Godard in alcuni suoi successi. Ma anche l’uso di musiche jazz evoca quei tempi ed è proprio la colonna sonora della generazione in rivolta. Senza dimenticare i vestiti dai colori sgargianti, le capigliature folte e lunghe e gli oggetti d’uso comune come la tv col tubo catodico, il telefono con la cornetta e il disco da girare. Il sapore è anche molto francese; sia per i temi trattati (le rivolte più importanti capitarono a Parigi) sia per una serie di riferimenti politici come la sparizione del generale De Gaulle per 24 ore e la rottura con il primo ministro Georges Pompidou, episodi piuttosto rilevanti ne La Cache.
Un sapore d’altri tempi (e che fa molto Nouvelle Vague) osservabile anche in alcune scelte stilistiche che hanno a che vedere con la materia cinematografica vera e propria. Alcuni trucchi tecnici, in voga all’epoca, usati in modo ironico come gli sfondi finti (tipici dei film classici hollywoodiani) che vediamo per esempio nelle scene all’interno delle auto. Un “trucchetto” qui messo in evidenza. Ma anche un “gioco” sulle grandezze degli oggetti – prima inanimati e piccoli poi animati e grandi – con i quali si mette in scena l’inganno del cinema verso la realtà. Così come altre sequenze nelle quali il fuori campo entra prepotentemente nel campo grazie ai rumori. È il caso dei disordini nelle strade e delle poteste che non vediamo mai direttamente, ma che udiamo e osserviamo negli sguardi preoccupati della famiglia.
Vi è pure una parte autobiografica della quale parla anche lo stesso regista in un’intervista. Un riferimento che accomuna le origini del romanziere e Baier. “La mia famiglia, come quella di Christophe Boltanski, ha origine nella città di Odessa. Lì, il mio bisnonno conobbe la sua futura moglie: lui era polacco e lei era svizzera. Il resto è la solita storia di migrazione. Quando girai Comme des voleurs nel 2005 in Polonia, provai a saperne di più sulle origini della mia famiglia, ma gli archivi non sono completi e interi periodi della loro vita non sono documentati. In quelle ricerche trovai alcuni documenti falsi, dichiarazioni contraddittorie, approssimazioni geografiche e decisi quindi che avrei preso, da questa genealogia, solo gli aspetti che sarebbero state utili. E avrei lasciato nell’ombra il resto. Lo stesso sistema usato da Christophe Boltanski nel suo libro. Lui racconta la sua storia della sua famiglia, non la verità sulla sua famiglia. Nel film ho fatto lo stesso intrecciando un po’ della mia storia”. Un aspetto che, ovviamente, richiama alla mente uno dei noccioli dell’essenza cinematografica e cioè la relazione tra realtà e finzione di cui molti teorici del cinema hanno scritto.