Esiste ancora la discriminazione razziale in Svizzera? Le donne nere sono ancora additate per il colore della pelle? A quanto sembra sì. O almeno è quello che emerge dal documentario Je suis noires di Rachel M’Bon e Juliana Fanjul. Un film che arriva anche nelle nostre sale dopo essere stato presentato al Festival diritti umani di Lugano in autunno.

Le voci do donne si mescolano tra di loro, raccontano piccole e grandi esperienze di discriminazioni e danno un volto e una voce alla protesta che nel giugno del 2020 aveva coinvolto diverse migliaia di cittadini svizzeri scesi in piazza a Ginevra, Zurigo e Losanna per denunciare la discriminazione razziale. Quella fu la prima volta che emersero le narrazioni delle minoranze visibili in una società apparentemente evoluta. Le donne nere sono state in prima linea, denunciando il razzismo sistemico e contrastando l’immagine scontata della Svizzera umanitaria come isola di pace e prosperità.

Anche se la presenza nera è il 3% della popolazione svizzera, essa è ancora considerata come un gruppo monolitico appartenente a una sorte di altrove selvaggio La negazione della loro individualità, che invece nel film viene messa in evidenza, blocca le persone non bianche nel loro «essere altro» e le costringe a giustificare costantemente la loro presenza sul suolo svizzero.

A realizzare il film una regista nera alla sua prima opera. Figlia di una donna svizzero tedesca e di un artista congolose per tutta la sua giovinezza ha dovuto fare i conti col problema razziale. In primis con suo padre col quale non voleva mai mostrarsi in pubblico. “Sono cresciuta negando le mie origini” dice a un certo punto la donna. “Oggi, invece voglio riappropriarmene” e lo ha fatto realizzando questo interessante documento che potrebbe valere anche una certa valenza storica. Basti pensare a come potrà essere visto tra una ventina o una trentina di anni, quando si spera, queste questioni siano completamente scomparse.

Come dice ancora la regista: “Ho deciso di agire il giorno in cui ho finalmente avuto la distanza e la maturità necessaria per testimoniare senza urlare, senza accusare, senza vittimizzarmi. Questo film è il risultato di questo lungo processo”. Un percorso, quindi, non ancora terminato ma che sembra ancora piuttosto lungo.