In concorso a Castellinaria, nella sezione Young, un bel film di Chiara Bellosi, alla sua opera prima. Palazzo di giustizia, ambientato al Tribunale di Milano, racconta di una giornata di ordinaria giustizia. Al centro, nel cuore del palazzo, c’è un’udienza: sul banco degli imputati un giovane rapinatore e il benzinaio che, appena derubato, ha reagito, sparato e ucciso l’altro, giovanissimo, complice. C’è il rituale, c’è un linguaggio, ci sono le toghe. Gli interrogatori, le prove, i testimoni. Ma noi vediamo anche (o soprattutto?) quello che sta fuori: i corridoi, gli uffici, il via vai feriale del tribunale, il rumore, il disordine. Le famiglie degli imputati e delle vittime in attesa. Una scelta sorprendente e vincente. Ne abbiamo parlato con la regista Chiara Bellosi.

Da dove è nata l’idea?

In principio volevo realizzare un documentario all’interno del Tribunale di Milano. Desideravo riprendere quello che avviene nelle varie sezioni come quella della famiglia, del lavoro, della casa, l’area penale. In quel luogo vengono concentrati i conflitti e le problematiche che viviamo nella nostra quotidianità. Volevo quindi raccontare storie rispetto ai vari temi trattati. Poi mi è stato proposto di pensare al film come a una storia unica e perciò ho osservato, per diversi mesi, quel che succedeva all’interno del Tribunale. Non potevo riprendere né audio né video, prendendo solo appunti. Ho anche cercato di mapparlo e quindi stavo nei corridoi, dove aspettano i famigliari, ma anche nei vari tribunali, nei bar, nei cortili, ecc. Il tutto cercando uno spunto iniziale che ho trovato osservando una bambina, che aspettava con sua madre, fuori dalla Corte di Assise, la fine di un processo. Lo sguardo che aveva corrispondeva al mio ed era perciò assolutamente ignorante su tutto ciò che le accadeva intorno.

La bambina è diventata il punto di vista, la guida per entrare in questo luogo ostico, severo e incomprensibile per la maggior parte di noi, anche perché si parla una lingua che non comprendiamo. Sono quindi partita dall’idea di far capire come una bambina potesse vivere una giornata dentro quel luogo. Che esigenze e che curiosità avesse e che rotture portasse in questo spazio. D’altra parte, c’era anche la necessità di avere un tema drammatico e netto all’interno dell’aula per permettere a loro, fuori, di portare più rotture e libertà.

Personalmente sono partito con un preconcetto nel senso che mi aspettavo l’ennesimo film sui tribunali. Invece hai trovato un chiave di lettura originale che è la divisione tra l’interno e l’esterno dell’aula. Un’idea vincente. Come ti è venuta?

Sin da subito ho sentito molto forte queste due urgenze: il dentro e il fuori. Quella del verdetto che deve arrivare su un fatto molto grave sottolineato dalla contrapposizione molto netta all’interno dell’aula tra i due uomini. Mentre, fuori, nel corridoio dovevo trovare i modi per far sopravvivere le due ragazze. Una loro via di fuga, malgrado non potessero fuggire.

Il reato protagonista del processo in corso è quello della legittima difesa. È stato scelto a caso o in base a ragioni precise?

Sicuramente avevo bisogno di un reato assoluto, grave e che accade abbastanza regolarmente. Inoltre, si tratta di un tema che ti permette di scavare nelle ragioni di entrambe le parti: la difesa e l’accusa. E quindi di accompagnare entrambi e stare accanto a loro e alle ragioni che li avevano mossi nelle loro scelte.

Un’altra questione che emerge nel film è quello delle colpe dei padri che ricadono sui figli. Come hai agito sul tema?

È un punto di partenza, un fatto che succede in modo più o meno evidente. Mi sembrava che per arrivare all’incontro ognuna delle due ragazze dovesse smarcarsi del legame col padre. Liberarsene e dare la possibilità a sé stessa di poter crescere, nonostante le contrapposte condizioni di partenza.

Come hai lavorato con gli attori, soprattutto con le ragazze?

È stato bellissimo e molto divertente. Mi ha aiutato una team coach: Tatiana Lepore. L’approccio è stato quello, sin dall’inizio, di creare delle relazioni con me, con Tatiana e con gli altri attori fuori dal set e dalla sceneggiatura. Le due ragazze hanno passato molto tempo insieme e questo, con una complicità molto forte, permetteva loro una libertà maggiore. Hanno anche passato insieme momenti della loro quotidianità: dall’andare a prenderle a scuola, alla merenda, ecc.

Sono stati necessari tanti ciack?

Abbiamo girato abbastanza, ma non c’è stato accanimento. Lavorare troppo con i non attori è sempre delicato e bisogna saper trovare il giusto equilibrio tra la freschezza e la stanchezza che porta alla meccanica dei gesti. Abbiamo soprattutto dato indicazioni precise sul sentimento di quella scena per poi dare loro lo spazio di sperimentarle. Devo dire che sono state davvero brave e anche propositive.

La sceneggiatura è un altro aspetto riuscito che rende la vicenda convincente. Come ci hai lavorato?

Ci ho lavorato parecchio. Ho scritto un primo trattamento in cui era presente tutta la storia. In seguito, ho approfondito diversi aspetti per cercare di capire le esigenze di quello o quell’altro personaggio. Ho quindi svolto un percorso partito dalla superficie che ha scavato sempre più a fondo nella loro psicologia.

Gli spazi sono altrettanto importanti. La freddezza di quell’ambiente si contrappone alla vitalità dei personaggi. È stato un altro elemento che avete studiato?

Il Palazzo di giustizia – che ha un’architettura razionalista – è molto freddo, per nulla accogliente e molto ampio nelle altezze e metaforicamente è perfetto perché rappresenta il potere sulle scelte di vita di queste persone. Ma questo luogo, in alcune scene, si è trasformato in una casa. C’è una scena in particolare in cui la bambina si bagna le calze e la madre gliele asciuga per non farle prendere il raffreddore, agiscono proprio come se fossero a casa loro. È anche una sensazione che ho avuto personalmente nel Tribunale. Un luogo spersonalizzante, ma anche carico di umanità e attraversato da migliaia di storie e persone.

Il film che percorso farà?

Intanto è a Castellinaria, poi non si sa. Vedremo. In Italia era appena uscito in sala ma ci è stato poco tempo perché, a causa del virus, sono state chiuse. Spero che riaprano e di poterlo ripresentare nelle sale dopo un anno drammatico per il settore cinematografico e non solo.