Dopo le danze e i balli di La La Land, Damien Chazelle prende il volo. Letteralmente. E segue la vita di Neil Armstrong, o almeno una parte di essa, in particolare gli anni precedenti la famosa missione che lo porterà sulla Luna. Lui è infatti il Primo Uomo che ha messo il piede sul nostro satellite naturale. La storia inizia quando Neil decide di diventare un pilota spaziale. Il giovane è talmente preso dal suo sogno che ottiene il brevetto addirittura prima della patente dell’auto e inizia ad appassionarsi di aerei. A poco a poco si fa notare anche alla NASA e viene reclutato per far parte di una squadra pronta a tutto, pur di raggiungere l’obiettivo principale: arrivare sulla Luna. Ma cosa deve sacrificare il cosmonauta destinato a questa missione? Domanda retorica alla quale il film, tratto dal romanzo di di James R. Hansen, tenta di dare delle risposte. La pellicola di Chazelle, presentata in anteprima alla Mostra di Venezia, si tiene in equilibrio tra gli spazi immensi che vive un astronauta nei suoi viaggi e
quelli intimi, sia legati alla sfera familiare, sia alla dimensione interiore dell’uomo-Armstrong. Questa è una pellicola diversa dalle precedenti di Chazelle. Per diversi motivi. Anzitutto cambia l’importanza della musica. Se era diegetica e parte integrante dell’opera in Whiplash, con Miles Teller che deve fare i conti con il terribile istruttore di batteria, in La La Land Ryan Gosling balla e canta con grazia – dall’inizio alla fine – tra un tramonto e una coda d’auto su una lunga autostrada americana. Qui, sembra invece che la musica sia compressa, dentro i caschi e le tute spaziali.
Non che la colonna sonora sia assente (con Chazelle è impossibile), ma questa volta il premio Oscar Justin Hurwitz deve controllarsi maggiormente e lasciare che siano le immagini a scandire i tempi. Ma c’è di più. C’è qualcosa di strano in questo film. Cerchiamo di spiegarlo. La conquista della Luna è vista come un lavoro duro. Dove la sofferenza e il sacrificio sono al primo posto. Non c’è spazio per il sogno e la magia. Non c’è spazio per gli antichi Poeti che l’hanno cantata nel corso dei secoli. No, qui siamo nell’America degli Anni 60 e non si scherza. Non ci si può emozionare troppo della scoperta. Bisogna arrivare per primi, battere gli odiati avversari e vincere. Detto ciò non c’è neanche l’eroismo dell’impresa. Altro fatto strano e che sfugge all’epoca in cui viviamo dove ogni minimo gesto è salutato come fatto storico. No, l’applauso al ritorno di Armstrong è lieve e contenuto. Siamo di fronte a un film atipico, a una riflessione sull’uomo e i suoi dubbi, sulle scelte fatte e le loro conseguenze. La Luna resta lì ad aspettare, guardinga e silenziosa. Vicina, ma anche molto lontana. Nello spazio e nel tempo.
Ecco, forse è questa la vera chiave di lettura. Quello strano satellite ci riflette, ci mette di fronte ai nostri pregi e soprattutto ai nostri difetti e ci fa pensare a come si possa ancora sognare, creare odi alla Luna, una volta che il sogno è stato infranto. Una volta che è stata violata. Visto in questo senso anche la famosa frase pronunciata da Armstrong acquista un senso nuovo: «Questo è un piccolo passo per un uomo, un gigantesco balzo per l’umanità». Un significato forse non del tutto positivo che si rispecchia in una vita tragica: segnata dalle perdite dei suoi colleghi e di sua figlia.