«Trema un ricordo nel ricolmo secchio» è un endecasillabo perfetto di Eugenio Montale, tratto da una poesia che amo leggere in classe: Cigola la carrucola del pozzo, dagli Ossi di seppia del 1925. Mi sembrava il verso perfetto anche per scrivere questo primo diario festivaliero.

Sono nella veranda di casa, ore tarde della sera, ed è il 31 di luglio. Il Festival non solo si intravede, ma a tratti si manifesta apertamente come un miracolo celeste e impudicamente sfacciato! Perché diciamocelo, a Locarno il festival è un miracolo. Lo stato della città si fa effervescente, sensuale come un vino raro: nell’aria si respira l’estro dell’arte, non solo la settima, ma tutte insieme: architettura, musica, pittura, scultura, poesia e danza si infiltrano tra le assi del grande palco teatrale di una città che deve tanto della sua fama al Cinema. Un miracolo, ripeto, un miracolo! E non me ne vogliano i locarnesi bacchettoni e allergici all’abbinamento coloristico giallo più nero, che prendono armi e bagagli e se ne vanno a chiudersi in Vallemaggia, in un casolare di campagna, o su a Cardada o addirittura lontani mille miglia, in altri continenti, «perché no, chi sono tutti questi cinefili!» Che dire: si perdono il miracolo, a ognuno il suo!

Oggi passavo per Piazza Grande con Nicola e Umberto, due cari amici e colleghi, e riflettevo su questo meraviglioso aggettivo: effervescente. Al momento la città è effervescente, tra sette giorni passerà dalla potenza all’azione, dal grado di aggettivo a quello più gallonato di verbo: ferverà! L’effervescente, in effetti, è ciò che sta per bollire, muoversi. Al gong della prima serata, invece, il clima prenderà un tornante più sinuoso – una curva che poi è una giravolta – e non sarà più effervescente ma «fervente», cioè bruciante, infiammato e pieno di passione. Oh, che miracolo a Locarno dal primo mercoledì di agosto ai dieci giorni successivi! Le strade brulicheranno di vita e tutto il Locarnese si animerà di cinefili, registi e attori che passeggeranno lì dove normalmente passeggiano i soliti quattro gatti spelacchiati e i due gabbiani in cerca di alborelle nel lago.

Io personalmente non appartengo a quella genia di appassionati che cercano a tutti i costi l’incontro con la star, ma quest’anno ho deciso di partecipare a più conferenze stampa rispetto all’anno scorso, dunque mi proietto sin da ora in vis a vis fortuito con Luca Marinelli (Giuria Concorso Internazionale) e do per certo un incontro con Jane , a cui verrà assegnato il Pardo d’Onore della 77ª edizione del Festival.

A volte basta poco per cambiare il nostro modo di porci nel mondo. Mi può accadere, per esempio, ed è proprio il caso di oggi, di imbattermi nel crepuscolo, ovvero in quella frazione spazio temporale in cui la luce si tinge di buio. Stasera ho colto l’attimo del trapasso osservando Camilla, la mia amata Labrador, mentre compiva il suo rituale giro di ispezione in giardino. Con una zampa sollevata, concentratissima, si ferma ad annusare i sassi finiti qui e là chissà da dove, le radici della mimosa, i sottovasi delle piante, alcune mattonelle della veranda scelte in base a criteri imperscrutabili. Ogni tanto si gira verso di me, scodinzola, sembra chiedere conferma della sua esistenza e della mia. In fondo il Festival questo sarà anche per me, ancora una volta: un rito di riconoscimento. Come per Camilla, ritroverò la mia casa: strati sovrapposti di odori, come negativi fotografici di sogni, richiami, sentieri piani e scoscesi di mattine fresche e pomeriggi alla controra, lunghe sessioni cinematografiche fitte di sete, e fami improvvise e devastanti alle due di notte. È questa la forma della capitale del cinema d’autore (così mi piace chiamare il posto in cui vivo, altro che fuffa!) riprodotta in me, nei suoi minimi dettagli. Una città non solo mia, ma di tutti coloro che la amano così vestita, di pelli e reggicalze leopardate. Due luoghi perfettamente sovrapposti, eppure reciprocamente penetrabili come vasi comunicanti.

Facendo una transizione cinematografica repentina (e azzardata, lo ammetto) alla Lynch, mi viene da dire che questa notte serena di fine luglio, mi sento come quel bambino che, pieno di gioia, ride da solo perché ha scoperto che il Super Santos arancione bruciato con cui gioca in spiaggia è identico a quello degli altri bambini e questa cosa lo conforta, lo rincuora. Il suo mondo, il suo pallone, la sua pinna e suoi occhialini, esistono anche altrove, in altre stanzette, in altre case. Questa rivelazione, lungi dal deluderlo, lo riempie di entusiasmo. Ecco, il mio mondo in questi giorni sta andando incontro proprio a questo tipo di gioia che consiste nel riconoscermi in chi mi circonda, nello specchiarmi in loro come potrebbero farlo migliaia di gocce d’acqua. Sai, quell’idea mai così sbagliata di sentirsi parte di una comunità più ampia! Certo, vaglielo a dire ai guerrafondai degli ultimi tempi o agli ossessionati dai confini patri!

Già so che spesso, riprendendo la carrucola di Montale, mentre il tramonto già striderà sul Verbano e «la ruota, ti ridona all’atro fondo», mi siederò a un tavolino all’aperto sorseggiando un caffè e ascoltando le risate e le conversazioni che riempiranno l’aria. Guarderò chi passa, giovani e meno, tutti uniti da quella danza condivisa di sguardi che si consuma in una sala cinematografica. Con un sorriso mi alzerò e mi dirigerò verso una nuova proiezione, pronto a immergermi in un altro mondo ancora. Diverso, eppure, tuttavia, per una durata precisa di minuti, certamente anche mio.