Diciamo la verità, non sempre, per varie ragioni, riesci a entrare bene in un film. Capita che a volte fai un po’ fatica soprattutto a seguirne il ritmo, ma una volta dentro non ne esci più. Ti costringe nelle sue quattro pareti (o forse cinque o forse due) e non ti lascia più uscire.

A me è successa con Flee (nelle sale della Svizzera italiana in questi giorni) il film animato del danese Jonas Poher Rasmussen che tra l’altro era candidato a ben tre premi Oscar molti diversi tra loro: miglior documentario, miglior film straniero e miglior film d’animazione. E questo fatto dice già molto di quel che è Flee e del mix di generi che l’autore è riuscito a creare in modo originale.

Questa è in breve la trama: Amin ha 36 anni, vive in Danimarca, è un affermato docente universitario e sta per sposarsi con il suo compagno. Ma proprio poco prima delle nozze, il passato torna a fargli visita, facendogli ripercorrere gli anni della sua gioventù, quando dall’Afghanistan arrivò in nord Europa dopo un lungo viaggio, con la speranza di chiedere asilo. Flee è il racconto di una fuga che si trasforma in un inno alla vita e alla libertà, un percorso umano intessuto di sfide e gioia contagiosa, una cronaca veritiera e poetica della ricerca della felicità, che apprendiamo dalla viva voce del protagonista.

La pellicola è costruita molto bene e le immagini seguono un’intervista che il protagonista fa al suo vecchio amico regista. Rasmussen, infatti, incontrò per la prima volta il nuovo arrivato su un treno locale quando erano studenti del liceo. Dopo diversi anni si ritrovano e Amin decide di raccontare la sua vita e soprattutto il viaggio della speranza (e per i cinefili elvetici questo titolo è un riferimento ineluttabile a un grande film di Xavier Koller).

Interessante anche la scelta dell’animazione – intervallata da brevi filmati storici dai cinegiornali dell’epoca per creare un contesto storico e soprattutto dire al pubblico che questa storia è reale, non è finzione – con la quale il regista ha capito le reticenze di Amin e gli ha offerto una possibilità più elicata e meno invasiva di raccontarsi. “L’animazione ha fatto sentire Amin a suo agio con la sua storia, potevamo usare la sua vera voce nel film e sarebbe comunque rimasto anonimo. E questo era importante per Amin, perché ha una famiglia che è tornata in Afghanistan e vuole rispettare anche la loro privacy”, ha precisato lo stesso regista danese.

Un’opera interessante sotto molti punti di vista e anche molto attuale. Occorre tuttavia avere un poco di pazienza per entrarci. Ma una volta dentro non ne vuoi più uscire.