Nel Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez (Operette Morali), Leopardi fa pronunciare al navigatore genovese le seguenti parole: «In somma tutti questi segni raccolti insieme, per molto che io voglia essere diffidente, mi tengono pure in aspettativa grande e buona.» Per questo poi Colombo parte per le Americhe. E partirei da qui pure io, perché penso che è proprio da questo ottimismo da esploratore che sia partito Paolo Cognetti nella sua prima opera da regista cinematografico. Dico Fiore mio, il film che si è visto ieri sera in Piazza Grande nella serata che precede e annuncia le giornate festivaliere locarnesi di questa calda e sulfurea estate 2024, e che per lo scrittore milanese rappresentava l’attesa prima mondiale. È un documentario che ripercorre le tappe di una perlustrazione del Monte Rosa, del quale scopriamo ad esempio che in valdostano significa monte di ghiaccio. «Rosa», infatti, viene dal termine longobardo Hrosa, da cui Royses, il cui significato è ghiaccio, non il colore rosa! «Ah, questi cittadini!».

Comunque, bella scommessa debuttare davanti a 8000 persone; ma anche saggia scelta, visto che la Svizzera e la montagna costituiscono un tutt’uno, come gli sterpi intrecciati di un nido d’aquila.

Tutto comincia nell’estate del 2022, quando mezzo globo si ritrova per la prima volta smarrito sotto gli effetti della prima soffocante super estate da secoli e l’Italia anche, nel suo boccheggiare, viene assediata dalla siccità. È allora che Cognetti comincia a riflettere sull’impietoso impoverimento della sorgente di Estoul, dove sorge la sua casa-rifugio, lontana dal bailamme metropolitano. Parliamo di un borgo nocciolina a 1700 metri di quota che si affaccia, sovrastandola, sulla vallata di Brusson, in Valle d’Aosta.
La scoperta del deperimento della sorgente da una parte lo annichilisce, dall’altra gli fornisce la chiave di Fiore mio: raccontare in sequenze cinematografiche (non più a parole, attenzione!) le maglie argentee e celesti di quelle montagne impastate di albite e biotite, di quei paesaggi e di quei ghiacciai destinati a cambiare nel sempre più prossimo futuro.

Nelle sue esplorazioni sul Monte Rosa il regista non è solo: tra gli altri emergono Arturo Squinobal (mani di ebanista e arrampicatore, occhi da guida esperta), lo sherpa nepalese  Sete, già personaggio reale di Senza mai arrivare in cima, Mia e Corinne, rifugiste che accolgono i viandanti in cerca di sé stessi e di stelle, Remigio, l’amico di una vita, coprotagonista del già citato romanzo sul Nepal (è sua la baita dove Cognetti vive in Val d’Ayas: l’aveva rimessa in piedi da solo, in memoria del padre) e ovviamente il suo cane Laki, inseparabile anima gemella e compagno sui rovinosi sentieri montani. A loro, infine, si aggiunge il cantautore Vasco Brondi, amico fraterno del regista, che tra l’altro lavora in questa occasione all’intera colonna sonora. Oltre alle sue musiche originali, Brondi è anche l’interprete e lo scrittore della canzone Ascoltare gli alberi che chiude il documentario. Questi i fatti. I miei pensieri a partire da tali premesse ammetto che siano volati in alto come quel falco immobile in aria che a un certo punto occupa dieci secondi magici di una scena; ma tant’è, il cinema in fin dei conti ci porta sempre lontano.

A differenza di molti, Cognetti è abituato al sentirsi fuori dal normale contesto umano: il suo attaccamento alla montagna ne è senza dubbio una conferma. La bontà del suo lavoro di regista sta nel fatto che noi spettatori – come del resto noi lettori di Cognetti – lì in alto ci sentiamo benissimo. Il suo rifugio in Valle d’Aosta entra in noi individui da città per imperscrutabili vie intime. Ecco allora che ci ritroviamo a godere della fotografia senza vergogna. Parlo soprattutto di fotografia perché ritengo che il film avrebbe comunicato il suo messaggio anche senza dialoghi. Anzi forse i dialoghi semplici, fatti di quella lingua a balzelli dei montanari, incapace di incantare veramente, avrebbero potuto pure esser taciuti. Non voglio con questo togliere il merito alla liricità di alcune parole che paiono messe insieme con la leggerezza di un haiku, ma solo dire che la forza del film sta nella poesia della montagna stessa, la quale risiede nel silenzio. Io è vero che sono un cittadino, ma la montagna la vivo. Ho imparato nei miei anni elvetici a camminare anch’io con il mio cane sui sentieri, seguire il mio ritmo e, con esso, il mio respiro. È allora che avvertiamo la nostra vicinanza con l’effimero e l’universale, due principi che collimano perfettamente. E questa è una cosa che solo la montagna può restituirci.

Effimero e universale si congiungono nella perfezione del silenzio. Diffidare del silenzio e riporre fiducia esclusivamente nella nostra seconda natura, che è quella costellata di linguaggio e di convenzioni, strumenti cioè facilmente governabili, ci porta lontani da Congnetti, in un pentagramma incomprensibile e angosciante. Non so se vi è capitato di guardare uno dei tanti documentari sugli effetti del cambiamento climatico che circolano sulle piattaforme streaming: io non ce la faccio, mi annichiliscono, mi schiacciano, mi sotterrano, mi deprimono! La lingua delle riprese sui sentieri di montagna di Cognetti, invece, della parola riprende il ritmo, e a quel punto non parliamo più di convenzioni ma di poesia. Ora, il fine della poesia, i poeti stessi ci insegnano, è il silenzio. Ed eccoci tornati a bomba, di nuovo lì.  Ogni poeta, da Dante a Leopardi, da Edgar Lee Masters a Tomas Tranströmer, da Shakespeare a Coleridge hanno detto e inteso questa verità. Il silenzio può suggerirci di guardare a stelle opposte del nostro firmamento umano. Nel silenzio di una camminata sul ghiacciaio uno si guarda le scarpe o contrae le sopracciglia in preghiera assorta, un altro si allarma, timoroso di essersi perso, un altro ancora sorride al bianco che lo circonda. Nel silenzio di un frusciante pascolo d’alta quota, camminando ascoltiamo parole inesistenti oppure fiutiamo l’usta di una lepre o di una marmotta.

Il ritratto dell’uomo che ha capito tutto è Sete: «Dapprima cuoco, quindi portatore d’alta quota, lui si è caricato la gerla sulla schiena fin da ragazzino, conquistando gli “Ottomila” del calibro dell’Everest, del Makalu, del Cho Oyu, del Dhaulagiri, dello Shisha Pangmacome», dice Cognetti in un’intervista per la rivista The Good Life del 2020. Paradossalmente nella pacatezza di Sete io ho letto l’ebbrezza, il delirio e la malattia, ovverosia l’opera implacabile di quelle forze oscure che snudano l’uomo e vanno inesorabili al cuore. È questo tipo di fascino, sembra dirci Cognetti, il segreto della montagna. Una malia che, se colta, ci denuda come fossimo un carciofo da sfogliare senza pietà, fino a giungere  al delirio dell’annegamento (ancora Leopardi), cioè in regioni indistinte del pericolo e della verità.

Interessante il rapporto tra Cognetti e il suo cane. Laki dei nostri rischi umani pare non aver traccia, e questo rassicura Paolo. Non ne ha, non solo perché, a differenza di noi umani, afferra senza difficoltà il senso di una camminata sul ciglio di una forra o tra le rocce granitiche di quarzo e mica bianca di un crepaccio, ma in essa sembra seguire il corso degli elementi naturali che lo circondano: il ghiacciaio del Monte Rosa potrà pure sciogliersi tutto, ma la natura non scomparirà; semplicemente cambierà forma. Laki insegna a Paolo la linea ottimistica per arrivare al cuore del problema, che alla fine rappresenta l’unico atto di coraggio che ci resta tra le mani: scalare il Monte Rosa è un modo attraverso cui arrivare in modo non euclideo al cuore di quello che ci sta succedendo intorno. La bellezza a cui assistiamo è priva di un centro, ci dicono Laki e Sete: se il bello fosse il cuore di un carciofo (leggi il ghiacciaio), il loro carciofo è assolutamente fuori dal comune. Il suo cuore non lo troveranno con una sistematica e progressiva esfoliazione, poiché esso è esteso e nascosto come il silenzio: si rintanerà, sembra dirci Laki, in un punto qualunque della complicata, frattalica e volumetrica sagoma della nostra asteracea. Magari è sulla spina della più avvizzita foglietta esterna, appena uscita da un peduncolo sbilenco del fiore coriaceo; oppure sul retro di un’anonima zona del gambo, di infima grandezza; oppure ancora dove in effetti c’è il cuore del carciofo, quello che noi umani chiamiamo cuore, ma che in realtà è solo un altro punto imprecisato su cui per puro caso l’occhio di Laki si è posato.

Parafrasando il Leopardi da cui siamo partiti, insomma, il documentario valeva le montagne svizzere sotto cui l’abbiamo visto ieri sera: la molteplicità dei segni che raccoglie, per quanto siamo degli esseri umani fatti di diffidenza e mollezza, ci «tengono pure in aspettativa grande e buona.»