Molte bambine hanno giocato con le Barbie: le hanno vestite, svestite, lavato loro i capelli, messo e rimesso le scarpe e collezionato tutti i loro accessori. Fashionista, film diretto da Simon Rumley, mette al centro l’accumulo compulsivo di vestiti e il loro legame feticistico. 

Protagonista del film è April, una trentenne co-proprietaria con il marito Eric  di un negozio di abbigliamento ad Austin. La coppia vive sepolta dai vestiti, che riempiono ogni angolo della casa e della loro vita. Quando April scopre il tradimento del marito la sua vita prende una piena inaspettata e pericolosa. 

Il film si apre  e  si chiude con una ragazza che cammina in un negozio di abbigliamento semi-illuminato da fredde luci al neon. La ragazza indossa semplici shorts neri, una maglietta e una felpa. Questa ragazza tornerà anche in altre sequenze ma sono alla fine capiamo chi è. Il suo personaggio costituisce uno dei tanti punti di ambiguità di cui è disseminato il film che alterna ritmi serrati a ritmi lenti e carichi di silenzi. Il doppio e l’incubo di marca Lynchiana sono la caratteristica più evidente del film che mantiene sempre un buon livello di tensione. 

April, interpretata da Amanda Fuller e già diretta da Rumley nel film Red, White and Blue (2010), è una ragazza ossessionata dal possesso di vestiti, tanti da instaurare un legame feticistico: quando è in crisi li annusa e li tocca. Per lei i vestiti sono come la droga: non può farne a meno. Il suo personaggio è quello più credibile e interessante del film, soprattutto quando si sfocia nella parte thriller, dove mostra la sua fragilità, ma anche la sua forza di reagire.  

Ethan Embry, visto recentemente in First Man, interpreta il marito Eric. Il suo personaggio è marginale, ma offre un’interpretazione convincente. 

Eric Balfour è Randall, un uomo ambiguo che April incontra in un bar. Possiede diversi passaporti e trascina April in un gioco pericoloso. 

Il film, con la fotografia di Milton Kam e il montaggio di Tom Sainty,  si configura come un prodotto in grado di catturare lo spettatore per l’intensità visiva propria dei vestiti e l’uso della musica. La sua riuscita sta nel combinare un’atmosfera già nota con un tema differente ma molto attuale. Il vero incubo del film è diventare delle bambole di plastica da vestire e muovere a piacimento, una merce. Il film non ha la pretesa di dare nessun insegnamento moralistico, ma sicuramente la maschera da Barbie che tormenta April è simile a quel volto bruciato dietro l’angolo di un fast food. 

Maria Vittoria Guaraldi (in collaborazione con https://lumiereeisuoifratelli.com/)