di Andrea Finessi
Un modo in cui offrire una visione del domani, esplorando il cosmo e l’animo umano, confrontandosi con paure e desideri.
Se i fratelli Lumière hanno inventato il cinema, Georges Méliès è colui che ha reso il cinema un’arte e lo ha fatto a partire da un film di fantascienza come Viaggio nella Luna (1902). La settima arte offrì, e offre tuttora, la possibilità di rappresentare ciò che fino a quel momento era stato soltanto immaginato da autori come Jules Verne, H. G. Wells e Mary Shelley, concretizzando in immagini la fantasia, ma soprattutto le paure e le aspettative sul domani.
Tra i primi esempi di fantascienza troviamo film come Metropolis di Fritz Lang (1927), in cui già si profetizza un futuro tecnologico, e nel quale le macchine sostituiscono l’uomo, schiavo delle macchine stesse. Elemento in comune a tante pellicole è infatti il timore del domani, ma soprattutto dell’ignoto: mostri, creature deformi e poi alieni nel corso dei decenni si susseguono sul grande schermo, come paure concrete da combattere, spesso sotto forma di esseri inarrestabili che l’uomo può sconfiggere solo a costo di enormi sacrifici. King Kong, i marziani de La Guerra dei mondi, gli alieni di Ultimatum alla terra (1940) o de La cosa da un altro mondo (1951), sono paure ancestrali, primitive, che prendono forma mostruosa, spesso come veri e propri invasori. Per molti anni la fantascienza viene considerata genere di serie B, una forma di intrattenimento a cui si contrappongono pellicole più impegnate e grandi produzioni. Fino a quando non si cimentano maestri come Stanley Kubrick o Truffaut, per i quali il mostro non è più solo qualcosa che vive su pianeti proibiti o che proviene dallo spazio profondo, ma è già qui, sulla Terra: l’uomo.
L’uomo, capace di autodistruggersi con la bomba atomica, è il protagonista de Il Dottor Stranamore (1964), così come è il protagonista delle società impazzite e distopiche di molte pellicole degli anni Sessanta e Settanta. Dalla trasposizione su schermo di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (1966), a Il pianeta delle scimmie (1968), Arancia meccanica (1971), 2022: i sopravvissuti (1973), Rollerball (1975) o La fuga di Logan (1976). È questa la svolta, nella quale Kubrick segna il passo del genere, arricchendolo di una nuova forma di narrazione, più adulta, più matura, introspettiva, capace di sondare le grandi domande dell’uomo.
2001: Odissea nello spazio (1968) è caposaldo di questa nuova fantascienza introspettiva, capace di esplorare la vastità del cosmo mentre sonda l’animo umano, come faranno anche Solaris (1972) e Stalker (1979).
La fantasia diventa quindi uno strumento per arrivare laddove la realtà appare perfino limitata e la pellicola diventa così una dimensione in cui si può spingere all’estremo le più profonde emozioni umane come la solitudine, la sete di conoscenza, il terrore dell’ignoto, ponendosi domande sul significato della vita.
Questa è la fantascienza moderna, non più genere di serie B, ma espressione fedele al fondamento del cinema, ossia all’immaginazione che diventa un modo per affrontare le grandi domande e chiedersi, costantemente, che ne sarà dell’uomo?