Bogancloch è un megacapannone simile a una falegnameria in disuso, sperduto nel nord-est scozzese, più precisamente nella remota foresta di Clashindarroch. In realtà, però, è molte altre cose, tra le quali la più evidente è il fatto di costituire la casa di Jake Williams, un eremita autosufficiente che vive lì (per gli spostamenti usa anche una mini roulotte) da oltre 30 anni. Documentario? No. Docufilm? Neanche. Mockumentary? Macché! Ma allora di cosa stiamo parlando? Innanzitutto è un’opera che esce da qualsiasi categoria: l’unica certezza che possiede è quella di essere uno dei film del Concorso Internazionale qui a Locarno. Regista Ben Rivers, Contea di  Somerset (sud-ovest inglese) , già candidato al Pardo d’oro nel 2019 con Krabi, 2562.

In breve potremmo dire che questo lungometraggio, sperimentale nella sua forma, si occupa di seguire Jake mentre svolge le più scontate mansioni di sopravvivenza in un posto così distante dal sistema delle vicende urbane: sto parlando di accendere il fuoco, bersi una tazza di caffè nella bruma del mattino o sotto la luna delle più viscerali notti d’autunno, o ancora piantare liliacee come l’aglio e la cipolla. Il tempo passa e noi lo passiamo con Jake. Se si ha voglia di sentirsi un po’ un umarell (sono serissimo!), beh, questo è il film giusto. Ovviamente è molto altro, ma la premessa era doverosa.

A venirci in soccorso per capirci qualcosa c’è il colore di uno sgranato bianco e nero ai limiti del granuloso, i tagli di sequenza con foto a colori slavate, le canzoni della mitica cantante egiziana Om Kalsum, le filastrocche inventate sul momento dallo stesso eremita e i tanti, infiniti pensieri che in questa ora e ventisei minuti ci passano per la testa. Perché la chiave di volta per godersi fino in fondo Bogancloch sono i nostri pensieri. Il film lo ho visto al Kursal alle 13:45 (prima proiezione per la stampa) e adesso è mezzanotte e ancora scorrono, i pensieri, un po’ come il filo delle stagioni e delle persone che, di tanto in tanto, entrano nell’esistenza di Jake e si intrufolano finanche nei suoi sogni a occhi aperti.

La forza di questo lavoro di Ben Rivers (cast limitatissimo costituito dal solo Williams) sta nella capacità di metterci a nostro agio di fronte alla sequenza delle scene di vita dell’eremita, permettendoci in questo modo di scavare in noi il giusto solco, la giusta distanza che ci divide dal nostro passato e ci concede di tirare un giudizio sulla vita odierna tout court.

I miei pensieri sono andati a Mac, un cane randagio che alla fine si fidava solo di me. I cani sono da sempre gli esseri con cui preferisco stare, e quando ero piccolo è stato proprio Mac a confermarmelo. Io passavo con loro, i cani di strada, i miei pomeriggi liberi e le mie vacanze. Ne ho avuti tanti di randagi, ma con Mac successe qualcosa di diverso. Ero molto fiero di poter condividere con lui quello che mi passava per la testa e lui pareva altrettanto fiero rendersi utile ascoltandomi. La mia infanzia non sarà stata una fenomenale giostra di lustrini, eppure Mac rafforzava la mia sensazione di sentirmi, come dire, indispensabile. Avrò avuto dodici o tredici anni e naturalmente in quel momento volevo diventare un veterinario. Tanti bambini nutrono questo desiderio, ma è inutile dire che molti di loro io li disprezzavo profondamente, semplicemente perché io – differentemente da loro – con Mac ci parlavo veramente e lui arrivava dalla casa del diavolo ogni volta che fischiavo o lo chiamavo: era una certezza! Avere certezze così lampanti per un bambino è importante e sono sicuro che questa cosa Jake la pensa tutti i giorni. È sicuro! Ed era sempre sicuro che Mac arrivasse: prima niente, poi un fruscio, poi la corsa e il suo respiro pieno, denso che recintava la mia felicità. Lo stesso non succedeva con gli altri bambini, ovvio!

Un giorno, però, Mac si accanì contro il capo ufficio di mio padre e non lo lasciava uscire dalla macchina: dovetti intervenire io per permettergli di conquistarsi un passaggio tra lo sportello e il portone di casa. Che soddisfazione per me; ma certamente anche per mio padre! Era un tipo tronfio e arrogante il suo capo ufficio, mi diceva, e Mac doveva averlo capito al volo. Sì, il capo ufficio di mio padre abitava nel nostro stesso palazzo e Mac non abitava in casa con noi, ma per strada. Ripeto, era un randagio. Fu così che una riunione di condominio trasse il dado, e non fu un dado felice né per me né tanto meno per Mac. In ogni condominio ci sono sempre uno o più individui che hanno perso qualsiasi relazione con la loro infanzia e tendono a ingrugnire il muso peggio di babbuini pulciosi. Mio padre, suo malgrado, mi disse di prendere Mac e portarlo da un contadino vicino casa, il quale lo avrebbe portato fuori città, in una fabbrica di lamiere recintata da cui non sarebbe potuto scappare. Andando lo tenevo legato per la prima volta a una corda e la cosa mi angosciava. Era un cane nero energico, molto simile a un pastore belga, con gli occhi nocciola che potevano iniettarsi facilmente di sangue o di cielo a seconda di chi gli si parava davanti, il pelo lucido (lo nutrivo bene) come quello di un corvo, e, pur sapendo che non può essere possibile, lo ricordo alto quanto me. In quei frangenti non gli parlavo, giusto gli rimanevo accanto senza neanche guardarlo, con la corda allentata. Avevo paura di inciampare, e pensavo come quando si prega: «Per favore torna, per favore torna, non farti incatenare, ti prego, ti prego torna presto». Per tutta la strada, fino alla casa del contadino, senza interrompermi, e per tutta la via del ritorno senza di lui ripetevo: «Ti prego torna, Mac, ti prego torna presto». Quando rientrai, provai a fare il superiore minimizzando e mostrando di non pensarci più, ma il giorno dopo Mac abbaiava sotto casa: era tornato, aveva percorso più di trenta chilometri ed era di nuovo lì. Probabilmente non erano riusciti neanche a legarlo: era scappato alla prima occasione! Che meraviglia quell’enorme cane nero a cui avevo dato il nome di Mac! Ovviamente il problema con il capo ufficio di mio padre non si ripresentò mai più, ma io ero sempre in allerta, pronto a intervenire in caso di guai. Fatto sta, però, che le decisioni di chi ha il potere sugli altri dovevano essere rispettate e presto mi dissero che dovevo riaccompagnare Mac lontano da casa. Questa volta non dal contadino ma da un pompiere che lo avrebbe portato ancora più lontano. Quella volta lo condussi dal pompiere senza neanche pensare: piangendo e singhiozzando gli arrancavo accanto e mi maledicevo per tutto il male che gli avevo causato. Perché io stavo male per lui più che per me. Mi faceva pena quell’essere così potente e forte che sarebbe arrivato alla fine dei suoi giorni trafitto dal dolore e certamente anche da più di qualche calcio ben assestato. In quel momento lui era l’unico come me. Lo consegnai al pompiere, mi voltai e corsi a casa senza mai girarmi. Lo avrebbero ammazzato, ne sono sicuro, anche se non me ne hanno mai dato notizia, per fortuna!

Chissà se era consapevole della sua forza, Mac. Probabilmente sì, ma quel dolore e quelle costrizioni lo avrebbero ridotto alla più completa impotenza. Avrebbe incontrato solo persone pronte a dimostrarsi (e contente di dimostrarsi) più potenti di lui: per questo mi amava tanto, perché io ero impotente quanto lui.

Tornando a Bogancloch, penso che la chiave di lettura sia proprio una riflessione sul potere. Esso, il potere, in ogni sua manifestazione, incute paura. Il potere vive grazie alla paura che dispensa attorno a sé, come una manciata di grani per le galline di un pollaio. Jake Williams sono trent’anni che prova a dimostrarlo. Dico l’esistenza di un mondo dominato dal potere. E il potere, lo abbiamo appena detto, esiste per incutere paura. Il nostro anacoreta sui generis, nel suo lungo tempo da eremita, sta cercando di dimostrare che per allontanarsi dalle paure bisogna allontanarsi dal potere, e per allontanarsi dal potere bisogna allontanarsi dalle persone. Di fatto è facile provare gusto a essere potenti e a diventare potenti. Di fatto è facile provare gusto a incutere paura, altrimenti Mac non sarebbe stato portato via da un bambino.

Una domanda irrisolta, mentre il film si conclude con la telecamera che si allontana verso il cielo e la vasca circondata dalla neve, in cui Jake si sta lavando («Non mi farò mai la doccia! Mai!», e il pubblico ride come liberato da un peso…),  diventa sempre più informe e confusa nella foresta che la circonda, è: perché sono tanto stimate le persone potenti da chi ha paura di loro? Perché le persone impaurite vanno dietro a chi incute loro timore, promettendo loro sicurezza? Che strampalata associazione quella tra la paura e la sicurezza! Che diabolica assurdità! E che bizzarra, balorda assurdità è vedere ritratta tanta tronfia potenza sul volto delle persone impaurite quando capiscono di piacere ai potenti!

Jake no. Mac no.