L’ambra insanguinata è quella di una foresta in Myanmar. Dove un gruppo di giovani lavorano giorno e notte nell’antro della terra, in miniere instabili e pericolose.

Ho visto Blood Amber, uno dei sette lavori scelti dalla Semaine de la Critique diretta dal ticinese Marco Zucchi.

Il regista (nonché sceneggiatore e produttore) Lee Young Chao ha voluto riprendere la quotidianità di questi minatori che negli occhi e nella testa hanno la speranza di trovare la pietra della vita. Quella che farà loro fare il passo da operai a boss. Nella prima impressionante scena, che ci mostra le precarie condizioni di lavoro attraverso un piano-sequenza, seguiamo uno dei giovani scendere in un buco di un metro per un metro. Infradito, lampadina in testa e una maglietta: questo l’abbigliamento con cui vanno a scavare la roccia per trovare la pietra preziosa. Un abbigliamento che poi ritroviamo nei gesti di tutti i giorni come il fare bucato. Un’azione ripresa più di una volta e sovente accompagnata dal bagno, a voler sottolineare la grande cura per l’igiene personale di questi giovani uomini. Una cura che tuttavia non è la stessa per il paesaggio in cui lavorano. Una foresta tropicale sporcata all’inverosimile con cartacce e pezzi di plastica. È piuttosto scioccante, per uno spettatore occidentale, abituato a non gettare nulla per terra (e soprattutto abituato a non rovinare la natura), osservare la noncuranza con la quale buttano in giro gli scarti di un pranzo o una cena.

Ma questo è solo uno degli aspetti rilevanti della pellicola. Infatti è soprattutto grazie alle parole dei protagonisti, intervistati dal regista, che lo spettatore comprende queste persone: i loro pensieri, le loro speranze e le loro ambizioni: uscire dalla povertà e sostenere le famiglie rimaste a casa. Più di una volta i giovani accennano a quanto sono riusciti a spedire ai famigliari e più di una volta abbiamo visto nei loro sguardi la paura di non riuscire a fare abbastanza. E allora giù un’altra volta. Il ventre della montagna li aspetta.