Blade Runner si può definire decisamente figlio del suo tempo. Uscito nel 1982, in un periodo di genesi di molte tecnologie rivoluzionarie che stavano aprendo nuovi e inesplorati mondi, ha profetizzato un futuro distopico, sovrappopolato, dove l’ingegneria genetica è divenuta ormai una pratica concreta e ampiamente usata. Un film che è stato qualcosa di più di un semplice neo-noir retro-futurista, ma che ha tratteggiato la paura per un futuro claustrofobico, incerto, oscuro, colmo di implicazioni morali e etiche su eugenetica, sulla definizione di vita ed essere umano.
Io faccio parte di quella che il mio professore di critica e analisi cinematografica definiva generazione post Blade Runner. Al tempo questa definizione aveva un tono critico, sottintendendo una (talvolta presunta, talvolta reale) ignoranza da parte mia e dei miei coetanei di tutta una cinematografia classica e fondamentale, compreso il periodo della New Wave americana del quale Blade Runner era uno degli ultimi baluardi.
Realtà distopica, complessa e cyberpunk partorita dalla mente alienata e alienante del postmoderno Philip K. Dick che col tempo si è saldata così concretamente nel nostro immaginario da diventare una pellicola tornasole di tutto un genere cinematografico successivo. E non solo. Dal 1982 al 2019, dal 2017 al 2049. Trentacinque anni dopo ecco che nel turbinio hollywoodiano dei remake, reboot, restyling, repelling ci inciampa anche la celebre opera di Ridley ScottBlade Runner 2049 però, a differenza di altri, sembra stata pianificata con un certo criterio: dietro la macchina da scrivere le stesse dita che hanno scritto l’originale, quelle di Hampton Fancher, coadiuvate da Michael Green, una lunga esperienza in serie TV come Heroes. In prima linea a reggere le sorti del film i due canadesi di punta di Hollywood: Denis Villeneuve, fresco di quel piccolo gioiello che è Arrival e Ryan Gosling, anch’egli con ancora nelle orecchie le note vincenti di LaLaLand. A completare il carnet il villain cieco Jared Leto (sottile riferimento al tema dello sguardo, presente anche nel primo film), l’ingombrante Dave Bautista e naturalmente il pluriredivivo Harrison Ford, ormai avvezzo a ruoli nostalgici, tornato nei panni di Deckard. Ma fra tutti, che vale la pena di sottolineare, è forse la presenza della locarnese Carla Juri, nei panni della dottoressa Ana Stelline, al suo secondo ruolo hollywoodiano dopo Brimstone. Scott dal canto suo si fa un po’ da parte, ritagliandosi solo il ruolo di produttore esecutivo e lasciando nelle mani del regista, del direttore della fotografia Roger Deakins il compito di replicare il film originale, mantenendone immagine e somiglianza, ma potenziandolo e dandogli gli strumenti per sopravvivere al nuovo tempo. Ma cosa racchiude in sé un film come Blade Runner? Qual è il suo lascito e cosa significa realizzare un sequel oggi?

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