I Cahiers du cinéma lo mettono al secondo posto nella classifica dei migliori film del 2021. Io no, non lo inserirei nemmeno tra i migliori venti. Annette di Leos Carax (vincitore a Cannes per la miglior regia e arrivato anche nei nostri cinema in questi giorni) è sicuramente un film interessante, anche importante, che tuttavia non mi ha appassionato.
Faccio una premessa, non amo particolarmente i musical. Pur riconoscendone la bellezza, la maestosità e la cura dei dettagli scenografici, è un linguaggio che non mi appassiona. Annette è un musical e quindi, il mio giudizio è già di per sé un pregiudizio. Ammessa questa mia colpa di partenza entriamo nell’analisi, partendo da due note sulla trama.
La storia raccontata è quella della coppia formata di Henry McHenry (Adam Driver), famoso comico teatrale grazie al suo spettacolo irriverente “The Ape of God“, e Ann Defrasnoux (Marillon Cotillard), attrice teatrale d’opera, amata da pubblico e critica. Una vita che viene messa sotto i riflettori dei media e dei social in ogni minimo dettaglio. I dissapori tra i due iniziano a emergere dopo il rapido declino della carriera di Henry, e la nascita della figlia Annette. Un dissapore che nel tempo si amplifica.
Carax, sin dall’inizio, gioca su più piani, passando in modo disinvolto dalla realtà alla fiction, senza dimenticare aspetti fantastici e onirici. E gioca anche con gli spettatori: tutti gli spettatori. Quelli dello spettacolo di Henry, quelli del teatro di Ann e con noi che dietro lo schermo osserviamo tutto ciò. Anche gli attori rivestono un duplice o un triplice ruolo: in un particolare momento del film Henry mette in scena la relazione privata con Ann, impersonando sia lui sia lei: facendo nascere in chi lo guarda, il dubbio della verità rappresentata. Un dubbio che percorre tutta l’opera di Carax. Basta guardare Annette: la piccola nata dalla relazione di Ann e Henry: lei, di volta in volta è una bambola e una bimba vera. Ma tante altre sono gli spostamenti di piano che volutamente confondono chi guarda. Così come costanti sono i rimandi tra il cinema e il teatro in una danza metaforica senza fine.
Si sente molto la presenza del regista in questa opera: attraverso l’uso molto “visibile” della macchina da presa, dove il suo ego viene messo in scena e straripa come in un mare in tempesta (un’immagine che ritroviamo anche nel film), senza limiti e senza ritegno.
Un film libero sicuramente, molto personale ma anche piuttosto strabico: con un occhio fa l’occhiolino al pubblico in modo anche irriverente e ammiccante, con l’altro si guarda l’ombelico: mette in scena i suoi problemi, le sue fobie e il disagio esistenziale che lo pervade.